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Sulla violenza

Oggi più che mai siamo nel pieno di una crisi planetaria: animali e piante scompaiono a una velocità impressionante. Attoniti assistiamo a un’estinzione di massa che non si verificava dall’epoca dei dinosauri. Nel frattempo le foreste bruciano e vengono abbattute, i ghiacciai si sciolgono e il clima si surriscalda; le terre fertili diventano sempre più desertiche, mentre l’uomo costruisce dighe immense per sconvolgere il corso naturale dei fiumi e le riserve d’acqua potabile scendono a livelli allarmanti. Tutto questo è in parte il risultato macroscopico di una serie di comportamenti individuali sbagliati, a loro volta frutto di ignoranza e inconsapevolezza, ma anche la conseguenza di scelte irresponsabili attuate in nome del capitalismo. 

Quanto sia ancora giustificabile questa ignoranza non sta a me dirlo, ma di fatto è arrivato il momento di agire con l’atteggiamento consono a una crisi planetaria, che come tale richiede l’impegno generale di tutti i governi e specifico di ciascuno di noi nella sua singolarità. 

“L’unione fa la forza” recita il detto e mai come ora questa verità è lampante. Eppure le pagine di cronaca ci raccontano di un’acredine della specie umana verso tutto ciò che la circonda e che pensa di poter dominare; ma anche verso se stessa, quasi a voler sancire la superiorità di una piccola parte a discapito tutto l’universo. E a questo punto viene da chiedersi: quando avremo sancito il nostro dominio sulla Terra, cosa resterà? 

“Oggi fa premio il grido, l’urlo, ‘l’incazzatura’, la frase roboante, non il discorso critico sommesso.” Sono le parole pronunciate oltre dieci anni fa da uno dei più grandi maestri che ho avuto la fortuna di incontrare, l’antropologo Luigi Lombardi Satriani, e ciò che si evince da questa breve citazione è l’approccio che la nostra cultura occidentale ha improntato sulla violenza. Diciamo questo riferendoci non soltanto a violenze esplicite, come gli abusi e le guerre, ma anche a forme più sottili che fanno parte del nostro quotidiano e che non siamo neanche più in grado di identificare, e che lentamente ci consumano. 

Si pensi, per esempio, al concetto di cura medica. Ernesto Iannaccone descrive così l’approccio della medicina allopatica: “La produzione di farmaci allopatici e più in generale la ricerca medica comportano una serie inesorabile di violenze compiute su esseri viventi. Quando assumiamo un farmaco chimico dobbiamo tener presente che il benessere apparente che ne deriviamo ha per contrappeso il dolore e la sofferenza di migliaia e migliaia di piccole creature innocenti. […] Perché la vita umana dovrebbe valere più di quella di un topolino o di qualsiasi altro essere vivente? Qual è il criterio che rende una specie superiore rispetto a un’altra? Il numero di neuroni cerebrali? La capacità di provare più piacere e più dolore? La qualità dell’amore per i propri piccoli? L’uomo è superato da varie specie in ognuno di questi campi”.

Proviamo invece a riformulare la domanda: quanti sarebbero disposti a donare la propria vita per il benessere di un’altra creatura vivente? Troviamo un bellissimo esempio nei Jataka, storie che raccontano le esperienze terrene di Buddha.

“Buddha si trova ad attraversare una terra afflitta dalla siccità e dalla carestia in compagnia di un giovane discepolo e, quando questi chiede di poter andare alla ricerca di cibo, egli acconsente a condizione che non venga fatto del male a nessuna creatura. Il ragazzo si allontana e Buddha, rimasto solo, nota nelle vicinanze una tigre con il suo cucciolo, entrambi ridotti in uno stato pietoso. La madre, tutta pelle e ossa, non è più in grado di dare il latte al proprio piccolo. Commosso, il santo si avvicina e decide di dare il proprio corpo in pasto alla tigre affinché possa sopravvivere e dare cibo al cucciolo. La tigre, però, è talmente debole da non riuscire ad alzarsi per divorare la preda. Buddha allora si ferisce un braccio e lo mette in bocca alla tigre, così da permetterle di sfamarsi”.

Qualsiasi atto genera delle conseguenze a esso affini per carattere. Il risultato delle nostre azioni, quindi, è semplicemente una forma modificata dell’azione stessa e quindi da un atto violento, da una parola violenta, da un sentimento violento non può far altro che generarsi altra violenza come suo prodotto. 

Ovviamente questa è una regola che si applica a tutti i campi, ma proviamo a pensare cosa accade quando la violenza è alla base della nostra scienza medica. 

Iannaccone ricorda che l’attitudine violenta è rivelata dal fatto che la malattia è vista come un nemico da sconfiggere e non un’amica che aiuta a conoscerci meglio. Quando ci ammaliamo, cerchiamo di ristabilirci il più presto possibile, senza fermarci un istante a domandarci quali siano gli insegnamenti che la malattia porta con sé. 

La capacità di non ammalarsi o di guarire dipende strettamente da quella di ascoltarci: ciò richiede tempo, pazienza e attenzione, tutte cose che mancano al nostro modo frenetico di vivere. Sono moltissimi i disagi che potrebbero essere curati solo riuscendo a portare pace interiore, del resto come possiamo pensare di conservare lo stato di salute o di guarire se nel nostro cuore albergano paura, rabbia, collera, ostilità, gelosia, attaccamento, frustrazione? Se ospitiamo sentimenti di guerra dentro di noi, non c’è precauzione che possiamo prendere, la malattia insorge come necessaria conseguenza. 

Portare pace dentro di sé, imparando a conoscere i propri sentimenti, provando compassione e amicizia per essi, praticando l’arte della libertà interiore per non essere schiacciati dai sentimenti: curarsi significa ricercare la pace e l’armonia. 

 Armonia è un termine che implica una relazione. Essere in armonia con se stessi significa saper gestire le nostre emozioni, ovvero ciò che ci collega con la realtà esterna. Non possiamo prescindere dal rapporto che abbiamo con la realtà della quale siamo parte, perché noi siamo fatti di quella stessa realtà. Nella Isha Upanishad si recita: “Colui che vede tutti gli esseri in sé e se stesso in tutti gli esseri non prova più odio”. 

La mia capacità di percepire l’altro da me e la realtà che mi circonda non è che la presa di consapevolezza dell’unicità che ci lega: siamo la stessa cosa. Io percepisco l’altro perché è fatto della mia stessa materia. Questo è il tanto decantato “stato di Yoga” ed è per questo che lo Yoga ci salva, perché ci predispone a una dimensione di apertura e ascolto nella quale riconoscere che non c’è soluzione di continuità tra me e l’albero che incontro nel bosco, tra me e la terra che mi sostiene, la persona che mi parla, la pioggia che mi cade in testa e il sole che mi scalda la pelle. Quando interiorizzo questa unicità, capisco che usare violenza contro chiunque o qualsiasi cosa equivale a indirizzarla verso me stesso, e le conseguenze di questa violenza non possono far altro che ricadere su di noi e ciò che ci circonda. All'opposto, percepirmi come parte del tutto apre la via verso la vera liberazione, quella che la cultura indiana pone al termine del cammino umano e che segna la fine delle rinascite: Moksa.

 Questa presa di consapevolezza oggi è urgente e necessaria, perché non possiamo continuare a ferire la nostra madre terra senza vedere con gli occhi spalancati che stiamo ferendo noi stessi; non possiamo più permettere all’invettiva violenta di avere la meglio; perché dobbiamo fermare il “fiume della prepotenza” che da troppo tempo domina, e i risultati sono oggi fin troppo evidenti, e dobbiamo pretendere che il mondo riscopra il piacere delicato e silenzioso dell’essere umani tra gli umani.

La natura ha un profondo senso di giustizia e un’enorme capacità di resilienza: potrebbe mettere a tacere tutto questo trambusto creato dagli umani semplicemente scrollandosi un pochettino, del resto se muoiono due miliardi di umani e nascono due miliardi di zanzare l’equilibrio è ripristinato. Siamo effimeri e passeggeri proprio come ogni altra specie e la nostra presenza su questa terra implica delle conseguenze. È stupido pensare che l’essere umano possa sopravvivere “a impatto zero”, senza prendere nulla dalla natura che ci ospita, ma ciò che è veramente impensabile è girarsi dall’altra parte ogni qual volta arriva il nostro momento di contraccambiare.

Patanjali, autore degli Yoga Sutra, indica come primo degli Yama (luogo dove il cammino ha inizio) Ahimsa, comunemente tradotto come “non violenza”. Una traduzione più corretta del termine, però, è “non interferenza”: lasciare, quindi, che la realtà attorno a noi possa fare il suo corso senza modificarne il cammino, senza trasformarne l’essenza e senza imporre cambiamenti a nostro piacimento. 

“In presenza di una persona fermamente stabilita nella non violenza, tutte le ostilità cessano”. (Yoga Surta, 2.35).

 Solo quando scopriremo il piacere dell’equilibrio tra persone e popoli, tra esseri umani e natura ci guadagneremo il futuro e smetteremo di rubarlo.

MARTA CASTRONUOVO

Questo articolo si è ispirato in particolare a due testi: 

Ernesto Iannaccone, Ayurveda, la medicina dell’armonia tra l’universo e l’uomo, Tecniche Nuove, Milano 2006.

Mario Capanna, Il fiume della prepotenza, Betelgeuse, Milano 2012.