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Virabhradra

L’origine di Virabhadrasana uno, due e tre affonda le sue radici nell’antica mitologia indiana ed è legata alla storia del Signore Shiva, nello specifico alle gesta conseguenti a un incidente divino avvenuto in un tempo ancestrale. 

Shiva era sposato con la sua amata Sati, ma i due non avevano mai ricevuto la benedizione del padre di lei, Daksha, che non amava l’indole solitaria del dio Shiva e il suo amore per la natura. 

Un dio dai lunghi capelli arruffati, amante della danza ed esperto del potere delle erbe non sarebbe stato un buon marito per sua figlia. Daksha il Prajapati (creatore dell’universo) era il fondatore della civiltà con i suoi obblighi e le sue regole. Shiva rappresentava il suo esatto opposto.

Dopo il matrimonio, Sati lasciò la casa paterna per iniziare la sua nuova vita con Shiva e, poco dopo la sua partenza, Daksha organizzò un importante rito sacrificale al quale invitò tutte le divinità; tutte, tranne sua figlia e il suo consorte. Quando Sati venne a sapere dell’affronto ricevuto dal padre, chiese a Shiva di andare lo stesso. Shiva rispose fermamente: “Perché dovremmo presentarci? Mi basta l’odio che tuo padre prova per me, non voglio stimolarne di nuovo”.

Sati, offesa dal comportamento del padre, decise di andare da sola al banchetto.

Quando arrivò, suo padre prontamente l’apostrofò: “Perché sei venuta senza essere stata invitata? Forse sei rinsavita e hai deciso di abbandonare quell’uomo selvaggio con il quale ti sei unita? Non è forse lui il dio delle fiere?”. 

All’udire queste parole, tutti i presenti risero. Sati parlò in difesa del suo amato: “Shiva è tutt’uno con la natura e non ha bisogno di dimostrare il suo potere infierendo sulle creature del suo regno. La vostra civiltà è artefatta e sfrutta la ricchezza della natura”. 

Daksha non esitò a ribattere e incalzare di nuovo contro suo genero, ma questa volta Sati non rispose; le sue labbra rimasero serrate in una smorfia di disgusto e delusione nei confronti dell’unico uomo sul quale, come figlia, avrebbe dovuto poter fare sempre affidamento. 

Pochi istanti dopo Sati raccolse tutte le sue forze e pronunciò un voto solenne davanti a suo padre: “Dato che questo mio corpo mi è stato dato da te, io rinuncio a esso”. Si sedette su un cuscino a terra accanto a suo padre, chiuse gli occhi e invocò il suo vero signore. Sati entrò presto in un profondo stato di trance, si addentrò così tanto in se stessa da incontrare il suo fuoco vitale (Agni) e così, all’improvviso, far divampare sul suo corpo le fiamme.

Quando la notizia della morte di Sati raggiunse Shiva, la sua reazione fu violenta: dalla più profonda tristezza, il dio della natura passò a una furia impetuosa. Si nascose nel posto più buio e profondo che riuscì a trovare, si strappò tutti i capelli e modellò un feroce guerriero: Virabhadra (Vira significa "eroe" e Bhadra "amico").

Shiva comandò al suo guerriero di raggiungere Daksha e tutti i suoi ospiti per distruggerli tutti.

Virabhadra, brandendo due spade oltre la sua testa, risalì dal sottosuolo per poi apparire al centro della sala (Virabhadrasana 1). Accertatosi di avere su di sé l’attenzione di tutti, il feroce guerriero puntò le sue armi indicando a tutti chi sarebbe stata la sua vittima, Daksha (Virabhadrasana 2). Infine, muovendosi rapidamente e senza esitazioni, sciabolò la sua spada e gli tagliò la testa (Virabhadrasana 3). 

Shiva, arrivato subito dopo la morte del suocero, riassorbì in sé Virabhadra e ben presto si rese conto che la sua collera era sparita per lasciare posto a un dolore immenso e poi a un’enorme compassione. Trovato a terra il corpo decapitato di Daksha, Shiva gli donò una testa di capra e lo riportò in vita. 

Sopraffatto dalla generosità del gesto, Daksha chiamò Shiva Shankar, il gentile e benevolo, e si inchinò a lui, mettendo da parte tutto il suo orgoglio. Come lui, anche tutti gli altri dei si inchinarono per onorare il dio Shiva.

Ma Sati era morta. Shiva lasciò la casa di Daksha stringendo tra le braccia il corpo della sua amata moglie e iniziò a vagare senza meta per lungo tempo fino a che non trovò il posto più isolato che conoscesse per tornare alla solitudine della sua vita ascetica.

Quella di Shiva e Sati è una storia questa di amore, attaccamento, vendetta, odio, dolore e compassione. Proprio attraverso la pratica della compassione, il sé riesce a perdonare gli errori dell’ego per poi tornare nel rifugio essenziale del cuore e della natura dove l’amore possa essere riportato in vita, sotto nuove forme.

Vi aspettiamo presto, per parlare dei dettagli relativi a ciascuno dei tre guerrieri.